Lettere a babbo

Mio padre Francesco “Nino” Salvestroni è morto il 4 nov. 1972.

Da allora mi sono rivolto a lui col pensiero, spesso, specie negli anni in cui avrei voluto il suo consiglio, o anche solo una condivisione di fatti e opinioni.


Caro babbo,

Mi vien da dire babbino come Pinocchio a Geppetto.

Ma che fai tu lì nel tuo vestito grigio color dopoguerra odor anni sessanta ?

Se non sapessi che ci sei stato vorrei inventarti, e ti rifarei uguale. Appena un po’ più alto e con meno nei sulla schiena magari.

Ora te ne stai vicino al mare tra i cipressi, e non sai quello che accade nel mondo, non hai radiotivù e cellulare, e non leggi nemmeno i quotidiani. Ma non ti annoi? I libri, la tua passione, la storia, la scienza, la filosofia. Tutte le armi del tuo corredo quotidiano con cui affrontavi il mondo del dolore. E non sai nulla di me, che non ti scrivo da trenta e più anni. Anni bui, anni radiosi, anni di certezze e dubbi, di passioni, di tensioni verso l’ignoto.

Già, l’ignoto che tu oggi sai, inevitabile contrappasso del non sapere nulla del noto.

Come puoi disinteressarti così ? No guarda, lo dico per te, non puoi pensare che freddo e vento abbiano spazzato il passato, che il tuo andare sempre in fondo alle cose, il tuo saper vedere attraverso fatti e persone siano stati inutili.

Qui ho cercato di seguire i tuoi insegnamenti, di mantenere almeno un po’ del tuo ambiente, del tuo pensiero dentro di me. Ma mi sono spesso lasciato andare, oppure ho cercato di apprendere da solo qualcosa del mondo quotidiano. E’ così strano e diverso, tutto è facile e nulla ha più valore; noi abbiamo le idee confuse sulle nostre mete, i più giovani ne hanno di false o non ne hanno proprio, forse se ne porranno ma non lo danno a vedere.

Il mondo venale ci risucchia, e tu non fai nulla, foss’anche un gesto beffardo, un’alzata di spalle per ricordarci qualche motto antico, come “non ti curar di lor ma guarda e passa”.

Il tuo mondo, la casa di piazza del Rosso, l’ansa dell’Arno. Quello che ti diceva nonna Rita, la sua paura “della strada” che corrompe e che invece ti fu svago e palestra, teatro di amicizie, forse di amori, di inquietudini giovanili. Oggi le rapporto alle mie esperienze, e mi chiedo quanto io debba frenarmi, o insistere ad apprendere, con il rischio di sbagliare.

Ma torniamo a te… forse laggiù facesti sogni di mete lontane, tornasti a studiare, ti iscrivesti alla Normale e poi partisti per il nord. Dopo la grande sbornia bellica, il tuo mondo di uomo di mezza età era per contrasto calmo, lineare, semplice. Certo non ricco nell’insieme, lo diceva il tuo panorama di operai e immigrati.

Della ricchezza, del successo, non ti curavi, e questo esempio è rimasto alla radice di una delle mie contraddizioni : di quale affermazione abbiamo bisogno per essere sereni, per diffondere serenità intorno a noi, senza sentirci parte di un massacrante gioco al rialzo ?

Ti curavi di noi, dei malati, del cane, del tennis, di amici e parenti, del dialogo, della memoria; tutto come se fosse scritto, una via maestra senza dubbie strade secondarie. Dei “venditori di fumo” avevi coscienza, te ne guardasti grazie ai consigli di nonno…

E io senza di te, che avrei dovuto fare ? Quante volte mi sono interrogato in quei primi anni, su quanto mi avresti consigliato.
Ho dovuto penare a ritrovare il cammino da solo, tu mi hai parlato dentro sinché ti ho saputo ascoltare. Ora tu sai, e la tua voce terrena è flebile; quell’altra, io ancora non la posso udire.


Babbo ‘72

Posavo la mano sulla tua spalla

Una carezza sul capo

Mi accompagnava la sera.

Seduto sul divano rosso

Tutto era come doveva essere

Il tuo colletto bianco di bucato

Fragrante di profumo.

Poi passò una nuvola, la prima

Ed ancora ti tiene.


Caro babbo,

Eccomi di nuovo a te. Tanto che non ti scrivo, scusa.
Però ti sono venuto a trovare e non mi dimentico.
Credo tu sappia di quello che accade a mamma, cui ho cercato di dare un continuo di protezione e affetto ispirati da te.
Sei ancora dentro di me, questa è una parte della tua vita oltre, quella che io conosco.
E di questi tempi, mi riecheggia dentro una delle tue lezioni : se non ci arrivi col cuore, arrivaci col cervello.
Già, ad averne abbastanza. Mi pare di averne, di averne avuto, per molte cose pratiche che mi sono dovuto imparare a tentativi, con varie incertezze e mille errori.
Ma come dosarle, le azioni di questi due organi primari ?

Il mio cuore non ha paura.

2015

Francesco “Nino” Salvestroni, 1972, estate